La Champions dei «ritorni»

Roberto Beccantini31 agosto 2023

Riecco la Champions, Banca centrale europea del calcio. Caccia al Manchester City del Pep, senza dimenticare che, la scorsa stagione, il nostro calcio produsse tre finaliste: l’Inter proprio lì; la Roma in Europa League; la Fiorentina in Conference. Tutte sconfitte, ma come diceva Nelson Mandela: «Io non perdo mai: o vinco o imparo». Morale: guai a fare gli sbruffoni, guai a fare gli sfascisti. Il cielo si è abbassato, e le stelle ci guardano da lontano, molto lontano: Cristiano dall’Arabia, Leo dagli States. Addirittura.

Il rito del sorteggio semina tracce, non sentenze: anche se alcuni pronostici possono sembrarlo, davvero. Com’è andata: benone all’Inter (che partiva in seconda fascia), bene al Napoli (l’unica in prima classe), benino alla Lazio e così così al Milan, entrambe in terza.

Spulciando qua e là. Ancelotti torna sotto il Vesuvio con la doppia carica di tecnico del Madrid e del Brasile (da giugno). Courtois e Militao sono k.o. Vinicius un po’ meno. Occhio a Ehi Jude Bellingham: classe 2003, metà rifinitore metà cannoniere. Per ora, almeno. Ripassare la storia non è mai esercizio futile. E Garcia ne ha bisogno. Tranquillo: Spalletti gli ha lasciato una Red Bull, non una Ferrari. Da non trascurare, inoltre, la partenza-sprint dell’Union Berlino, che dopo Gosens ha scritturato persino Bonucci, 36 anni di malizia liquidati da Madama non proprio in punta di brindisi.

Inzaghino ritrova il Benfica, già liquidato in era Lukaku, con un Di Maria in più. Sarri, che non ha mai amato la politica del «doppio binario», dovrà guardarsi dal Cholismo dell’Atletico e dalla cavalleria leggera del Feyenoord.

E poi c’è Pioli. Sulla carta, il girone più agguerrito: tra il gran bordello del Paris Saint-Qatar,
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E Magnanelli?

Roberto Beccantini27 agosto 2023

Prima di tutto, standing ovation per il Bologna. Non più il pugile suonato dal Milan, ma un Alì svolazzante come una farfalla e pungente come un’ape. Zirkzee falso nueve, Ndoye e Orsolini larghi sulle ali, Ferguson a cogliere l’attimo e il corridoio. Come sul gol, ispirato dall’ennesima sponda di Zirkzee. Dietro, Beukema e c. a presidiare i valichi al modico prezzo di zero tiri concessi. E se nella ripresa, sullo 0-1, Thiago Motta avesse avuto il rigore che meritava (Iling-Junior su Ndoye, pure da rosso), chissà come sarebbe andata. Chi scrive, un salto al video lo avrebbe fatto, voi?

La Juventus, adesso. Prendete la versione di Udine e sparpagliatela tra i fantasmi d’antan. Ci si chiedeva, attoniti, dove fosse finito Magnanelli, e perché mai Allegri lo avesse deportato. Geloso, forse, del ventello in Friuli. O senza forse. Perché sì, era tornata la solita Madama, lenta e grigia. Con Chiesa prigioniero, e non più libero, d’attacco. Con Vlahovic accerchiato e comunque greve negli appoggi. Con Weah timido e Cambiaso, l’ex di turno, imbottigliato da sodali che ne conoscevano a memoria i sentieri. Locatelli e Rabiot procedevano a passo d’uomo, non un’idea, non una scintilla. E non appena gli avversari recuperavano palla, vacillava più Perin che non Skorupski.

Se la fantasia si dimena sepolta dalle sabbie mobili di una squadra più attenta all’edicola che non alle analisi, servirebbero velocità di pensiero, precisione dei piedi, un dribbling. Sì, un dribbling. Invece no. La solita brodaglia, alll’attacco per dovere, aggressiva per emergenza, due gol di Vlahovic, il primo annullato da un fuorigioco «varista» di Rabiot, il secondo valido almeno per il pari, senza però quei guizzi che, soli, sconfiggono la mediocrità. Dai cambi la manovra ricavava poco, a differenza del risultato. Pogba, persino. Temo che il passato passi, a volte.

La «salida allegriana»

Roberto Beccantini20 agosto 2023

Le attenuanti generiche della prima valgono per tutti. Ci mancherebbe. Ciò premesso, la «salida allegriana» dell’impatto sembrava appartenere a una squadra finalmente «normale». Pressing, velocità d’esecuzione, recupero rapido e baricentro, rispetto alle mappe d’antan, da cime innevate. Sventrata nella rosa, l’Udinese di Sottil ci metteva del suo: l’ingenuità di Zarraga a monte dell’azione Vlahovic-Chiesa, rifinita con un saettante destro dal limite; il mani-comio di Ebosele che propiziava il penalty trasformato dal serbo, giusto al 20’. E a bollicine ormai esaurite, l’uscita-capestro di Silvestri su cross di Cambiaso, un invito a nozze per la testa di Rabiot.

Va scritto che, sullo 0-2, l’arbitro aveva sorvolato su un contatto Rabiot-Thauvin, il classico rigorino che puoi dare (come sabato, al Frosinone) e non puoi dare. Sacchi suggerisce sempre di leggerle, le partite, nella loro interezza, e non di piegarle agli episodi. E allora? Chiesa «libero d’attacco» è un’idea che ha pagato: sino a quando, almeno, c’era benzina e la squadra lo puntellava «alta», in linea con l’indirizzo delle dottrine moderne.

Alla fantasia, in passato, provvedevano Dybala e Di Maria: ora che non ci sono più, bisogna inventarsela. Si è giocato più a sinistra (Cambiaso-Chiesa) che non a destra, là dove Weah seguiva più la lavagna che l’istinto. Con Miretti mobile ma grezzo nelle scelte e Locatelli, tosto, a presidiare i valichi.

Il caldo, lo scarto e i cambi hanno consegnato la ripresa al temperino di Samardzic, a un paio di parate di Szczesny e a una Juventus sazia e un po’ lessa. Iling-junior e Yildiz hanno sparso coriandoli di gioventù. Rimangono, della serata, quei venti minuti d’ingaggio. Belli e persino« cattivi». E’ una fetta che, senza Europa, il cuoco dovrà trasformare in torta.